Salvo

Nato a Leonforte (Enna) nel 1947. Ha vissuto a Torino dove si è spento nel 2015.

La formazione artistica di Salvatore Mangione, in arte Salvo, avviene nella Torino degli anni Sessanta, a contatto con gli artisti che operano nell’ambito dell’Arte Povera e gravitano intorno alla galleria di Gian Enzo Sperone. In quel clima di confronto e sperimentazione esordisce come artista concettuale servendosi della fotografia e della parola per avviare il suo personale percorso artistico. Sperimenta montaggi fotografici nei quali sono presenti quegli elementi che caratterizzano la prima parte della sua produzione, quali la focalizzazione sul proprio io, il compiacimento narcisistico, l’affermazione di sé. Si ritrae ironicamente nelle vesti di un antico pittore, di un santo, di un guerriero, come a ribadire il valore soggettivo dell’opera d’arte e il potere demiurgo del suo artefice. In tal senso vanno lette anche le lapidi in marmo, nelle quali recupera l’uso di un materiale pregiato e l’aurea di monumentalità ma sempre in termini ironici, di iperbole, ad esempio quando scrive “Salvo è il migliore”.

Come saggio si rappresenta nell’opera Salvo e Boetti come i sette Savi che scrutano il moto degli astri del 1969. L’opera appartiene a quella fase della ricerca artistica che precede la svolta verso il figurativo e ne contiene le premesse di riconoscibilità del soggetto. L’artista rilegge un’incisione del passato con un tratto sottile, leggero, ne ripropone l’impianto compositivo per piani paralleli e verticali (controllo dello spazio pittorico che non verrà mai meno neanche nella produzione successiva), ma rende l’opera presente e contemporanea dando il suo volto, e quello dell’amico Boetti, a due dei savi raffigurati a scrutare il cielo stellato e sottolinea la resa di seconda mano attraverso la trama sgranata del colore. La tecnica “extra artistica”, cara all’arte concettuale, viene qui utilizzata per indagare il già fatto, senza camuffamenti, palesando la sua “ripetizione differente”.

Su questa linea si colloca, intorno al 1973, la decisione di dedicarsi alla pittura figurativa e al medium pittorico tradizionale per “rivisitare i musei” e rileggere le opere del passato. Ripropone iconografie classiche e soggetti mitologici con un segno volutamente arcaico, colori puri, squillanti e un insieme compositivo dalle proporzioni fuori scala, come a dire che non c’è mimesi, che tutto è frutto di un pensiero conoscitivo intimo e soggettivo, che al centro di ogni fare c’è sempre e comunque se stesso, l’artista, il pittore per eccellenza. Anche nelle opere realizzate a partire dagli anni Ottanta e suddivisibili in serie, le “Ottomanie”, i “Notturni”, fino ai più recenti “Autunni” e “Primavere”, il tratto va oltre la presentazione iconografica dell’immagine, descrive per indagare tra i principi costitutivi e gli elementi primari che stanno alla base della realtà. L’immagine restituita acquista un nitore compositivo, una essenzialità di forme, volumi e colori, talvolta accompagnati da giochi di luce e da contrasti cromatici apparentemente e volutamente banali, che costituiscono la cifra stilistica dell’autore.

Rosaria Raffaele Addamo