Di Marco

Andrea Di Marco, Palermo 1970 – 2012

Andrea Di Marco, nato a Palermo nel 1970, fa parte del gruppo di artisti che ha operato nel capoluogo siciliano a partire dagli anni Novanta, nel solco di un recupero consapevole della pittura quale linguaggio privilegiato.

Esponente di spicco della nuova pittura siciliana, ha allestito personali in diverse città italiane e partecipato a collettive di rilievo. Tra queste ultime si segnalano Sui Generis. Dal ritratto alla fantascienza del 2000 al PAC di Milano, Italian Factory del 2003, mostra itinerante fra la Biennale di Venezia e il Parlamento Europeo di Strasburgo, e Arte Italiana 1968/2007 a Palazzo Reale di Milano. Nel 2008 è invitato alla XV Quadriennale romana dove la sua opera viene riconosciuta dalla stampa specializzata come una delle possibili direttive della pittura futura.

Spinto da un’istanza voyeuristica che lo porta ad osservare angoli e visuali spesso immersi nell’apparenza della banalità del quotidiano, apre squarci nell’intimità di stanze private, come nella serie dei Condom che mostrano la sezione di interi palazzi abitati da creature immerse nelle loro abitudini e nei loro vizi, consumati avidamente nelle mura domestiche. Talvolta nei suoi lavori si diverte a collocare ironicamente negli scenari urbani figure e pupazzi estrapolati dai fumetti, accentuando l’effetto di spiazzamento. Il suo racconto visivo, costellato da mute presenze disposte come su un tavolo anatomico, si dispiega quasi sempre in una orizzontalità ricercata: così in Retearancio, in cui dietro lo scenario in primo piano, probabile cantiere in stato di abbandono, l’apparente calma fa intravedere e intuire paesaggi esotici e sognanti (le cime delle palme, i gabbiani). Il suo sguardo registra dati ed elementi fotografati dalla realtà, trasposti sulla tela in maniera apparentemente mimetica, di fatto con ricercati slittamenti visivi, che sembrano alludere a un ermetismo di marca montaliana, pronto a cogliere il senso segreto delle cose <<vicine a tradire il loro ultimo segreto>>. È una pittura filamentosa quella di Di Marco, che si offre nell’immediato come ostentazione ridondante e per certi versi provocatoria, a rivendicare un’appartenenza dichiarata, un’asserzione dell’oggettualità dell’esistenza che non cerca vie di scampo, che accetta la brutalità e la volgarità del reale. Spesso solo il taglio visivo inconsueto concede spazi all’insolito e all’inaspettato, verso una spazialità deturpata da speculazioni e abbruttimenti edilizi. Le sue visioni di un’urbanità scontata sembrano essere gli epigoni dell’apparente banalità pre pop di Jasper Johns, con evidenti affondi nella calma surreale di vedute che ricordano Edward Hopper. Come in quest’ultimo certe angolazioni o certi scenari con la loro calma apparente alludono al lato nascosto della coscienza – le villette isolate che rievocano alla memoria le scene di Psycho – così in Di Marco, l’allinearsi degli oggetti o l’improvviso emergere di cancellate e steccati prelude alla tragedia imminente, pronta ad esplodere, in tempi e dinamiche inaspettate e per questo ancor più inquietanti.

Fabio De Chirico